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Il pozzo di san Patrizio

Sulle tracce della Serenissima nel Vicentino
Il distretto metallifero del vicentino

“… in questa parte bellissima dello Stato havevano un piccolo Peru’ … perché vi sono così copiose da ogni parte le miniere et di nobili metalli, che è cosa di stupore”.
Questo scriveva Marc’Antonio Castagna nella sua relazione del 13 agosto 1670 intenzionato a trovare i finanziamenti per riavviare l’attività estrattiva delle miniere vicentine con il sostegno del patrizio veneziano Alfredo Sarego.
Era già stata scoperta l’America e i metalli preziosi provenivano dal Nuovo Mondo a costi inferiori, ma nel distretto metallifero dell’alto vicentino c’era una lunga tradizione che allettava ancora gli imprenditori e che durò praticamente fino al termine del dominio veneziano.
Numerose tracce e indizi ci dicono che già dall’antichità i metalli venivano lavorati in quest’area e i ritrovamenti di asce preistoriche ne sono un esempio. Ma è soprattutto dopo il Mille, che con la scoperta di importanti giacimenti di metalli diversi, prende avvio lo sfruttamento minerario.

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Dai documenti di archivio veniamo a sapere che la Repubblica di Venezia si interessò ai giacimenti minerari dell’alto vicentino fin dalla sua annessione e che istituì fin da subito un attento controllo sulle attività estrattive mettendo in campo diversi strumenti giuridici, dalle regole per le concessioni al primo Statuto Minerario e giunse anche a finanziare direttamente la ricerca dei giacimenti.
Tutto l’argento estratto doveva essere venduto alla Zecca di Venezia a un prezzo prefissato e lo sfruttamento dei filoni era assoggettato al pagamento della decima mineraria, ossia il concessionario doveva riconoscere alla Repubblica un decimo del metallo estratto già affinato e lavorato. Nel 1505 il sospetto che il materiale venisse contrabbandato e il forte calo nella produzione portò Venezia a sostituire la decima con un pagamento in denaro.

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Possiamo individuare due periodi particolarmente fruttuosi: il primo si colloca all’inizio del ‘400 e l’altro a cavallo del secolo successivo, anni in cui la produzione media annua è stata davvero eccezionale e si aggirava tra i 500/600 chilogrammi.
Probabilmente il declino del primo periodo coincise con lo sfruttamento e l’esaurimento dei filoni più superficiali e facilmente raggiungibili. Ma Venezia, spinta dallo richiesta di argento e rame in seguito alla diffusione della moneta in tutta Europa, finanziò una nuova ricerca di giacimenti e nel 1479 venne rilasciata un’investitura al patrizio Girolamo Morosini per la zona di Schio: è l’inizio di una nuova fase. Nuove gallerie più profonde vengono scavate, il ricordo dell’argento estratto nei decenni precedenti e il favore della Serenissima attraggono molti patrizi e piccoli imprenditori accorrono: il mito dell’argento è ormai nato e durerà fino alla caduta di Venezia anche dopo il completo esaurimento dei filoni.

20 – Galleria n 3 Passo di Riolo

Poiché qui si estraevano anche piombo, ferro e le “terre bianche”, possiamo parlare di vero e proprio distretto minerario, in cui venivano attratti minatori e fonditori che provenivano soprattutto dai paesi dell’Europa centrale, maestranze provenienti in particolare dal Tirolo e dalla Baviera, portando capacità e inventiva che senza dubbio contribuirono a far crescere i guadagni. La presenza di molti lavoratori di diversa cultura e origine nonché l’incremento dell’attività estrattiva portò i concessionari a chiedere alla Repubblica di Venezia di regolamentare sia i comportamenti dei lavoratori che l’uso delle risorse necessarie alla produzione come l’acqua e il legname: fu così redatto e approvato dalla Repubblica di Venezia e il primo Statuto Minerario che costituirà la legislazione mineraria veneta.
Si investì quindi sia nella ricerca di nuove vene, ma anche nello sviluppo di nuove tecnologie. Non possiamo infatti trascurare di ricordare che a Schio si sperimentò per la prima volta su scala proto industriale la tecnica dell’amalgama, grazie alla quale era possibile estrarre l’argento dal piombo, o da altri materiali che lo contenevano, senza l’uso del fuoco, risparmiando quindi grandi quantità di legname, ma usando invece il mercurio, come ci attesta un documento che ne concede la licenza per gli anni compresi tra il 1506 e il 1509. E’ datato invece 1595 la relazione del Vicario Generale Filippo de’ Zorzi, in cui descrive di come un cavatore non usasse il sistema tradizionale di cavare dalla terra i l minerale, ma con “estravagante modo” facesse un piccolo foro nella roccia per inserirvi la polvere da sparo e così “discoprire quello, che la dentro vi stava nascosto”.
Già a partire dal 1525, il minerale estratto calò drasticamente e quando nel 1540 giunse in Europa l’argento e l’oro delle Americhe, la rimuneratività del lavoro minerario nelle terre di Schio venne meno. Tuttavia negli anni dal 1519 al 1540 fu comunque attiva la Compagnia Granda, anni in cui si scavarono “buse”, gallerie, cunicoli, che continuarono ad alimentare il mito dell’argento che non si spense e per il quale, nonostante i continui fallimenti, Venezia insistette nella ricerca fino alla sua caduta.

La miniera di san Patrizio
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Nel 1663 il “visitator et esator delle minere” Carlo Angeli relaziona al Consiglio dei Dieci in merito alla sua visita della miniera di San Patrizio e chiede adeguati investimenti per proseguire l’esplorazione oltre quella “bocca chiusa […] ad arte, per occultarvi precioso tesoro”.1
E’ questo probabilmente il luogo più emblematico e rappresentativo di tutta la storia mineraria veneziana nelle terre di Schio. Il nome stesso evoca tesori nascosti ma al contempo è sinonimo di inutile dispendio di risorse ed energie alla rincorsa di un mito.
La Miniera di San Patrizio, dal nome mitico, esiste davvero ed è stata individuata nell’altopiano dei Tretti, sopra Schio: ha una superficie di circa 2000 mq e si estende su un’area di circa 7000 mq ed è un articolato insieme di cavità artificiali e naturali di origine carsica dove profondi pozzi si alternano a cunicoli.
Così la descrive il naturalista Giovanni Arduino nel 1741: “gli spaventosi profondissimi pozzi, nelli quali discesi, nominati di S. Patrizio, si trovano dopo d’essersi molto internati nelle viscere di quel monte per un sotterraneo cuniculo. La loro prima discesa è perpendicolare a grande altezza, e molto perigliosa; poi entrasi in un laberinto il più intricato che immaginare si possa, d’innumerevoli viottoli, che estendendosi per ogni parte dentro quelle durissime pietre, sempre più si diramano, e si profondano con rigiri tanto tortuosi; e moltiplicati, che tratto tratto si incrocicchiano, ed insieme si confondono.” (Macca, 1815).
Le molte cecche presenti nelle pareti dei cunicoli testimoniano una cospicua presenza di noduli e tasche di minerale argentifero estratto con molta cura per non lasciare alcuna traccia in loco.
Oggi questa miniera non è visitabile.